(Racconto in 3 parti di quanto accaduto a una famiglia in fuga per la guerra in Ucraina)
“Abbiamo capito che se fossimo rimasti saremmo morti di sicuro, invece se avessimo cercato di partire c’era una possibilità di sopravvivere”. La donna, il marito, cinque figli e la mamma anziana capiscono che è il momento di scappare da Mariupol dopo più di un mese e mezzo di vita nei sotterranei, senza acqua e senza gas. Sul vecchio autoveicolo che dovrebbe portarli in salvo sono in dodici. “Andando avanti le bombe ci cadevano accanto. Gli aerei volavano ogni due tre minuti. La nostra macchina era gpl ma l’avevamo riempita di benzina presa da qualche parte. Non ho mai pregato così tanto nella mia vita. Da nostri cellulari avevamo cancellato tutto in modo che non ci fossero foto della guerra o dei bombardamenti. Al check point russo li hanno controllati: i soldati russi temono che queste immagini arrivino in Russia”.
Lasciata l’automobile, la famiglia ucraina percorre sette chilometri a piedi. Fa freddo, tira un vento gelido. Raggiungono il villaggio di Melechino, da lì alcuni amici li portano in un altro paese, Urzuf, dove trascorrono la notte. Il giorno dopo trovano un pullman diretto prima a Berdyansk, poi a Zaporizhya, che è disposto a caricare solo donne e bambini: “Non volevo lasciare mio marito, ma per una coincidenza fortunata i volontari ci hanno dato un passaggio fino a Berdyansk. Qui abbiamo alloggiato in una scuola, era un mese che non ci lavavamo. Per dieci giorni abbiamo vissuto con la speranza degli autobus umanitari, che non arrivavano, c’erano solo tanti soldati russi”. Una mattina presto l’intera famiglia riesce a salire su un minibus diretto a Melitopol. Si ripete lo stesso copione: la città è occupata e non c’è possibilità di salire su un mezzo per andarsene. Il proprietario di un hotel li ospita gratuitamente, ma nello stesso albergo alloggiano anche dei ceceni. La donna ha paura
“Poi mi sono ricordata che mio marito e io avevamo lavorato con uno sceneggiatore famoso, l’ho chiamato, e lui ed altre persone ci hanno aiutato a partire con una colonna di automezzi”. La strada verso l’ultimo checkpoint è minata e si sentono i boati di nuovi bombardamenti: “Le labbra dei bambini sono diventate blu per la paura quando hanno visto queste nuove esplosioni. Continuavo a pensare ‘abbiamo lascito un inferno per saltare in aria qui su una mina’. Ma Dio ci ha salvato di nuovo. Quando siamo entrati nel territorio sotto controllo dell’esercito ucraino, abbiamo baciato tutti quelli che abbiamo visto, abbiamo abbracciato tutti quelli che erano lì. È stata una tale felicità! Piangevamo tutti! Dopo aver lasciato Mariupol abbiamo cercato di uscire dal vicolo cieco per sedici giorni. Poi siamo arrivati a Leopoli con il treno di evacuazione, i volontari ci sono venuti incontro e ci hanno portato qui alla Caritas-Spes”.
(Il testo è una sintesi dell’articolo apparso sul sito della Caritas-Spes Ucraina, da cui è tratta anche la fotografia)