Ucraina, una famiglia dopo l’inferno di Mariupol/1

“Se Dio ci ha fatto uscire dall’inferno, allora ha un piano per noi”: con questa frase la mamma di cinque figli – il più grande di 22 anni e il più piccolo di 5 – riesce a dare un senso a tutto quello che hanno vissuto.
(Racconto in 3 parti di quanto accaduto a una famiglia in fuga per la guerra in Ucraina)

La donna, il marito e cinque figli vivevano a Mariupol, la città ucraina che affaccia sulla costa settentrionale del mar d’Azov. Il 24 febbraio, quando è iniziata l’invasione russa, al rumore lontano delle prime esplosioni scendono tutti nel grande seminterrato sotto la loro abitazione, dove iniziano a vivere senza acqua e senza riscaldamento. Si esce fuori solo il tempo necessario per procurarsi del cibo. 

Il seminterrato seppure grande è molto affollato: diviso in due zone ospita settanta persone da una parte e 120 dall’altra. Molti i bambini. L’unico modo per riscaldarsi è prendere tutte le coperte che ciascuno ha in casa e coprirsi con quelle. C’è un bagno, e questa è già una fortuna. Per i servizi igienici si usa l’acqua piovana o si fa sciogliere la neve. Più di questo non è possibile: “Eravamo neri come diavoli, i nostri vestiti e le nostre mani erano neri (…) Lo spavento per i bambini era così grande che per le prime due settimane non sono mai usciti dal rifugio a respirare un po’ d’aria”. Per cucinare viene acceso un fuoco all’esterno, ma quando scatta l’allarme – e succede di continuo – bisogna lasciar perdere cibo e pentole e tornare sotto terra. 

Il 17 marzo, un giorno terribile: nove persone, vicini di casa, muoiono sotto un bombardamento aereo: “Quando ho visto com’era distrutta la loro casa, non capivo come fossero stati ritrovati i corpi sotto quei sassi. Nessuno li ha seppelliti.  Li hanno portati in cantina e li hanno ricoperti di linoleum…”. I bombardamenti aumentano, il pericolo – seppure al riparo sotto terra – si fa sempre più grande, nessuno riesce più a dormire la notte: “Coprivo i bambini con le icone e pregavo che Dio li salvasse”.

Andare fuori era pericolosissimo: “Tutto ronzava lì attorno, era difficile anche solo varcare la soglia, ma dovevamo uscire lo stesso per cercare da mangiare.  Scavalcavamo i cadaveri e via, perché dovevamo per forza trovare qualcosa per nutrire i bambini”. Il 16 marzo i russi lanciano una bomba sul teatro di Mariupol, vicino al seminterrato dove la famiglia vive ormai da più di un mese e mezzo. “Mio marito mi ha detto che non potevamo più restare, io ero d’accordo, ma partire è stato comunque difficile”. I due coniugi e i loro cinque figli fuggono da Mariupol senza corridoi umanitari, e senza sapere bene dove andare. Pochi giorni dopo, il 21 marzo, anche la loro casa viene distrutta dalle bombe: “Non abbiamo più un posto dove tornare”. Ma hanno un posto dove stare al sicuro, adesso: il centro della Caritas-Spes Ucraina.

(Il testo è una sintesi dell’articolo apparso sul sito della Caritas-Spes Ucraina, da cui è tratta anche la fotografia)

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