Burundi, i Batwa dall’isolamento al cambiamento

In Burundi, la comunità dei Batwa è composta da sessantasette famiglie, difficili da raggiungere e spesso dimenticate, ma con grande voglia di cambiare la loro vita.

Sulla collina di Kinga c’è una piccola comunità Batwa, pigmei, che da generazioni vive in queste aree rurali del Burundi: i più poveri tra i poveri. E così abbiamo deciso di incontrarli.

Nessuno era mai venuto fin qui, a sedersi con noi e a chiederci dei nostri bisogni” ci dice Jeanne, dopo una lunga e non facile chiacchierata, fatta di silenzi, risposte sussurrate, sguardi bassi e rassegnati, seduti sotto al sole di mezzogiorno.

Sono solo 67 le famiglie della comunità Batwa di questa collina. Un numero davvero esiguo, che non giustifica le difficoltà di inclusione e di sviluppo che incontrano. Eppure, sembrano incastrate in un circolo vizioso senza soluzione. Vivono in case di fango e foglie, con tetti in paglia, costruite su terreni inerpicati che vengono ereditati di generazione in generazione.
Da anni, la loro principale attività e unica fonte di reddito continua ad essere quella della realizzazione di vasi in argilla, anticamente usati per cucinare.

“Io voglio smettere di fare vasi, perché tanto poi non li riesco a vendere, la gente oramai preferisce le pentole. Ma noi non abbiamo terra da coltivare. Neanche un pezzetto.” Ci racconta Odette, 19 anni, appena sposata.
“Noi vogliamo essere sviluppati come gli altri. Avere il bestiame, come gli altri. E le case. Vorremmo un ambiente decente, delle case in mattoni, coi tetti in alluminio.”

È stato un tempo sospeso, infinito, quello passato a parlare con i Batwa. È stato davvero difficile guadagnare la loro fiducia, accogliere le loro parole, così semplici e così crude.
Negli occhi ho visto tanta rassegnazione e tristezza, come fossero “bloccati” in questo tempo sospeso, incastrati tra tradizione e innovazione. Stretti nella professione di vasai, anacronistica e non più sostenibile. Con il desiderio, visto come irraggiungibile, di inclusione e cambiamento ma senza avere, apparentemente, le risorse necessarie a muovere il primo passo.

“Se aveste la terra, l’acqua, il bestiame, che cosa cambierebbe nella vostra vita?” chiede Emanuela, responsabile progetti in Africa per l’AMU, quando li incontra.
Saremmo come tutti gli altri” risponde Odette.
“E cosa pensate che potreste fare voi, per contribuire al raggiungimento di questo cambiamento?”
“Noi non sappiamo fare niente, non possiamo fare niente” risponde lei ad occhi bassi

“Non sono d’accordo su questo” si inserisce Jerome, dell’équipe di Casobu, guardandomi.

Restano in silenzio. Testa bassa. Minuti infiniti.

“Siete andate a scuola?” Chiede ancora Emanuela.
“No, mai. Neanche un giorno”.
“Sapete contare i soldi?”
“Si, certo” rispondono
“Allora una cosa sapete farla”
Sorridono. È la prima volta che accennano un sorriso da un’ora e mezza che siamo insieme.

“E avete forza nelle braccia?” Chiede Jerome
“Si, certo”. Alzano la testa. Ora ci guardano.
“Allora potete lavorare la terra, fare lavori che richiedono forza, giusto?”
“È vero…” le spalle si raddrizzano, si guardano tra di loro, ridacchiano.

“E gli animali, il bestiame, sapete gestirlo, nutrirlo, curarlo?”
“Si, questo sì.” Ora sorridono, si animano. Sembrano essersi svegliate da una lunga trance.

“Allora, avete visto che qualcosa la sapete fare?” Conclude Emanuela.

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